François Koltès – Vivo a Ortigia, nell’ isola di Siracusa, la più bella, e sto bene qui.

Ci onora molto condividere questa lettera di François Koltès all’amico attore, autore e regista Pippo Delbono. Letta dallo stesso Delbono al pubblico dell’ Ortigia film festival 2014

Perché pensiamo sia molto importante quando parla di un dramma insopportabile.

Perchè  mostra la forza della bellezza e del dolore nel sentire queste emozioni che riguardano il futuro dell’essere umano.

Ci onora molto perchè un essere umano, degno di questo nome, è ancora in grado di sperimentare la solidarietà per gli altri senza perdere la capacità di entrare in empatia.


Siracusa 18 Luglio 2014 – Ortigia film Festival

Carissimo Pippo

[…] Ieri sera eravamo sul terrazzo sopra lo Scoglio, a mangiare la pasta alle sarde preparata da Michele. Il caldo è ancora forte e il vino dell’Etna non basta a calmarci: l’elicottero è passato ancora sopra Ortigia, poi è rientrato nella notte sopra il mare. Tutti i giorni e le notti della primavera e dell’estate, come un rito macabro, i motori delle aeronavi riempiono l’aria rovente e una cattiva tristezza ci rende silenziosi.

Alle sette sono passato sotto il Palazzo Montalto, immagine mitica di antiche ricchezze, ho preso un caffè in piazza Sant’Antonio, ho camminato nell’aria ancora fresca fino a Porta Marina e sono sceso al porto. Quattordici barconi hanno attraccato da qualche giorno, uno contro l’altro; un quindicesimo sembra buttato contro il molo della dogana, addosso al muro in cemento. È soltanto una parte di quelli che sono stati fermati nel canale di Sicilia in questi ultimi mesi, tutti in difficoltà. Io vengo qui come se andassi a vedere la tomba di mia madre, ogni giorno. Vengo soltanto a vedere, non c’è nulla da dire. Non c’è niente da raccontare. Sono delle barche in rovina, che però sono riuscite ancora una volta a fare la traversata.

Sono arrivati nella notte un barcone con 128 anime e una scialuppa con 347, rimorchiati dalle navi delle guardie costiere e della Marina nazionale. La sera prima sulla spiaggia di Catania i bagnanti hanno messo in salvo 234 africani che stavano annegando a duecento metri degli ombrelloni; il giorno prima ancora, un barcone ad Avola, e il giorno precedente due a Portopalo. La lista è lunga e funerea: sono rare le imbarcazioni che sbarcano con il carico completo. A volte puoi vedere quei corpi che camminano, alti, con i loro sacchetti di plastica, uno dietro l’altro, lungo la riva. La pelle è grigia, uniforme, quella degli africani, dei siriani, degli egiziani, come se la sofferenza gli unificasse in una stessa razza maledetta. Gli occhi sono rossi, bruciati dal sole o dagli spruzzi, come se il Mediterraneo, pur generoso, volesse prendersi la loro dignità. Ma sotto accusa non è il mare.

Vivo a Ortigia da qualche mese, nell’isola di Siracusa, la più bella, e sto bene qui. Mi piacciono le persone, mi piace il vino, il caffè, la luce, il mare, lo Scoglio da dove i ragazzini si tuffano nell’acqua limpida tra i pesci. Ma mi è entrata una bestia nella testa, che mi divora. Le barche sono belle, magnifiche come antiche rovine. Danno un colore esotico alle coste siciliane. Portano sugli scafi, sui ponti e sui fianchi un profumo di avventura, un retrogusto di corsa marina. Non posso dimenticarle, non di meno del Caravaggio di Santa Lucia, del teatro di Segesta, della Cuba di Palermo. Ma oggi come oggi quei barconi mi ossessionano: i pezzi di stoffa, le valige, i resti di traversate epiche e rovinose. E li vedo, stretti gli uni contro gli altri, nelle calli, nei pontili, sui tetti delle cabine, vomitando le interiora, abbaiando a volte al cielo la loro fame e la loro sete, o a volte standosene in silenzio, la testa china come degli schiavi. Non posso parlare di loro, che mi hanno parlato invece tante volte, senza che non mi si chiuda la gola. Sono colpevole, loro mi giudicano colpevole. Lo sono. La bellezza di quelle navi, la bellezza enorme di quei corpi distesi di donne, di bambini e di uomini e le loro anime evaporate, mi fa impazzire. Non ho più voglia di parlare, di scrivere, di fare della poesia indecente su questo scempio. Io non posso parlare al loro posto, non so quello che hanno vissuto, quello che stanno vivendo. So solo che non posso continuare a guardare tutto questo, ogni sera e ogni mattina, a leggere il Giornale di Sicilia quotidianamente per sapere dove è successo questa notte, quanti sopravvissuti, quante donne impazzite dopo che sono stati buttati a mare i corpi dei bambini morti. Non posso continuare a versare lacrime inutili e affettate.

Mio padre militare era tornato dalla guerra con delle foto di un campo di sterminio nel momento della liberazione. Quando ero bambino avevo visto, nel granaio, quelle foto che non dimenticherò mai di corpi incartapecoriti, dallo sguardo insondabile. Dopo non abbiamo mai smesso di dire: mai più! Ma la Storia ci racconta, in ogni giorno del Signore, che quello continua, che la razza umana può essere peggiore della razza animale. Sotto altre forme, certo, per altre ragioni di quelle dei nazisti. Ma rimane il fatto che l’asservimento dell’uomo per l’uomo deve far parte della nostra natura.

Quel commercio è proficuo, quello dei trafficanti di carne umana, com’era fiorente il commercio di schiavi nel passato. Rende nel Mediterraneo quasi quanto quello della droga. Permette anche la compra di armi e la sottomissione delle popolazioni del continente africano. E più prospero ancora è quello delle società di assicurazione delle frontiere –pagate

dall’Europa-, commercio alimentato dai fabbricanti d’armi, di radar, di navi da guerra, ecc. Sappiamo tutto ciò, così come sappiamo che ogni costruzione di muri per impedire le migrazioni è inutile. L’esodo è ineluttabile. Ed è un mercato redditizio.

Perché vogliono preservare la loro dignità, che nei loro paesi è impossibile da conservare per ragioni di mancanza di lavoro, di fame, di tradizioni intollerabili, di giustizia arbitraria, di paura, di guerre senza fine, loro traversano il mare o le terre per andare altrove, verso qualcosa che non conoscono ma che credono li salverà della loro condizione umana insostenibile.

È nel loro diritto.

Perché sono degli esseri umani, come lo sono i rom, come gli ebrei, gli arabi, i messicani, gli handicappati, i matti…

Quando ti dico tutto questo so bene che è solo una piccola parte di una realtà che nessuno tra noi può neppure immaginare. Ma abbiamo ancora un cervello per pensare, un’immaginazione per creare, il sentimento di un dovere civile per agire, anche se con le sole nostre mani contro il possente esercito del soldo. Che fare?

Non so. Ma di una cosa sono certo: non dobbiamo lasciare ancora insabbiarsi quelle barche, gettarsi contro le rive, capovolgersi in mare, per poi sentirci dire: mai più senza aver provato a fare qualcosa almeno per una volta.

Ho fatto ancora delle foto nel sole della sera verso la Fontana Aretusa, e poi lungo le rive. Le barche erano belle, un po’ in disparte rispetto a quelle dei pescatori.

Nel canale del porto che divide l’isola della terraferma, un immenso yacht bianco è ancorato, più alto degli antichi palazzi vicini. I marinai impeccabili hanno sistemato le passerelle: la gente guarda, tra la dogana e le imbarcazioni clandestine, o dal ponte che porta al tempio di Apollo, quattro ragazze bionde che scendono dalla nave, come se camminassero su una passerella d’alta moda, occhiali neri e labbra rosse, pelle bianca accuratamente protetta durante la crociera. Una bandiera russa sventola a poppa.

Questa sera, carissimo Pippo, andrò a bere più del dovuto con Michele, e aspetto i ragazzini che tornano dallo Scoglio, tremolanti nell’aria iodata, canticchiando piano:

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

 

François

François Koltès vive tra Parigi, Ortigia e l’Africa. Architetto e documentarista, lavora in  Africa da oltre venti anni. Egli è il fondatore dell’associazione Direct Action Sahel (Associazione per la Ricerca e la diffusione di acqua in Africa occidentale).
Premio Grand Lions 2009 per la letteratura regionale con “Piccolo uomo stai piangendo”(Galaade 2008), “Nero Vespri “è il suo secondo romanzo